Non siamo in ondizioni di affermare che dietro le esplosioni nel porto di Beirut ci sia la mano israeliana.
Certo, non sono in molti nella regione ad avere competenze ed interesse a destabilizzare il Paese dei Cedri, ma ad oggi sono solo illazioni e congetture.
Tuttavia, ripassando la storia, forse è anche superflua questa valutazione ai fini dell'attribuzione delle responsabilità sulla drammatica condizione che vive il popolo libanese, di cui i recenti drammatici avvenimenti rappresentano solo pioggia sul bagnato.
in questo esercizio d'analisi, ripercorrendo la storia degli ultimi decenni, ci aiutano le interessanti riflessioni degli attivisti protagonisti di mobilitazioni di massa e dell'analista arabo Mouin Rabbani negli articoli di Michele Giorgio su Il Manifesto.
Buona riflessione.
BEIRUT. Operazioni militari e guerre, i libanesi rifiutano gli aiuti israeliani
Resta viva la memoria di guerre, bombardamenti e invasioni militari israeliane. Ma una porzione di libanesi, in prevalenza cristiani maroniti, vede nello Stato ebraico un alleato contro Hezbollah
Considerato uno degli attivisti più importanti delle proteste di piazza contro l’intera classe politica libanese, senza eccezioni, Nizan Hassan l’altra sera ha commentato senza peli sulla lingua l’offerta di aiuto al Libano giunta da Israele.
«Vaffanculo. Fanculo e basta. Le pubbliche relazioni non laveranno i crimini di 70 anni del vostro Stato etnico coloniale ed espansionista. Se avete buone intenzioni, allora investitele per porre fine all’apartheid, all’occupazione e alle guerre e lasciate la nostra miseria fuori dal vostro patetico whitewashing», ha twittato mentre a Beirut si scavava alla ricerca di superstiti all’esplosione.
L’analista Omar Baddar invece ha ricordato la pioggia di bombe a grappolo che Israele ha riversato sul Libano del sud durante la guerra del 2006 e che ha reso invalidi molti civili libanesi, tra i quali bambini.
Mentre Hassan, Baddar e altri libanesi gridavano il proprio sdegno, i media di mezzo mondo pubblicavano la foto della facciata del Comune di Tel Aviv, in piazza Rabin, illuminata con i colori della bandiera libanese. Sul Libano è intervenuto anche Benyamin Netanyahu. «Prima di tutto, in nome del governo israeliano, invio le nostre condoglianze al popolo libanese…C’è stata una grande catastrofe in Libano. Siamo pronti ad inviare assistenza umanitaria in quel paese», ha detto il premier, mentre la tv pubblica Kan riferiva che Israele è in una fase di «discussioni avanzate» con l’Onu per trasferire materiale medico al Libano.
Un aiuto “peloso” nel giudizio di tanti nel paese dei cedri dove non si sono rimarginate le ferite per guerre, occupazioni militari e raid israeliani che – con la motivazione della «autodifesa attiva contro il terrorismo» del movimento sciita filo iraniano Hezbollah e di gruppi palestinesi – hanno causato migliaia di morti e feriti e distruzioni immense. Non sono state risparmiate le infrastrutture civili, neppure le centrali elettriche (l’attacco a quella di Jiyeh, nel luglio 2006, provocò un disastro ambientale). Molti ricordano ancora il 28 dicembre 1968 quando un’unità di elite israeliana fece esplodere nell’aeroporto di Beirut 12 aerei di linea di compagnie libanesi.
Sempre per «autodifesa», l’esercito israeliano per 22 anni ha occupato un’ampia fascia di territorio meridionale libanese, ha lanciato vaste operazioni militari, avviato due guerre (1982 e 2006), circondato e bombardato Beirut, colpito Sidone, Tiro, Tripoli e altre città e compiuto dozzine di esecuzioni mirate di libanesi e palestinesi. Senza dimenticare la strage dei profughi di Sabra e Shatila compiuta da miliziani di destra libanesi nel 1982 sotto gli occhi dei militari israeliani.
Il giornalista Gideon Levi ieri sul giornale Haaretz ricordava la “Dottrina Dahiya”, dal nome della periferia meridionale di Beirut. Quella zona tra luglio e agosto del 2006 vide l’aviazione israeliana ridurre in un cumulo di macerie gli interi quartieri popolari di Haret Harek e Bir Abed, roccaforti del movimento Hezbollah che giorni prima aveva lanciato un attacco sul confine uccidendo alcuni soldati israeliani.
Va però detto che l’aiuto degli israeliani una porzione non insignificante di libanesi lo accetterebbe molto volentieri. Non per motivi umanitari, per ragioni politiche. Non è un mistero che Israele sia visto come un alleato da molti cristiani maroniti e più di recente anche da musulmani sunniti, che addossano sui propri connazionali sciiti legati a Hezbollah e sui filo siriani la responsabilità dei gravi problemi del paese.
Non si tratta di un fenomeno nuovo, frutto del crescente disinteresse arabo verso la causa palestinese e la «resistenza». È cominciato ben prima della nascita di Israele. I proto-sionisti Moses Montefiori e Adolphe Cremieux, furono tra le prime personalità europee a rispondere alle richieste di aiuto dei maroniti nel 1860 durante quella che è nota come la guerra del Monte Libano tra cristiani e drusi.
Già allora i maroniti – molti di loro oggi come allora si considerano non arabi ma discendenti diretti di Fenici e Crociati, e si sentono più fratelli di Emmanuel Macron che dei libanesi sciiti – individuarono nel movimento sionista un alleato contro la supremazia numerica degli “arabi”, i sunniti e gli sciiti. Per questo accolsero con grandi onori i nazionalisti ebrei in visita in Libano dopo la Dichiarazione di Balfour.
Speravano che l’afflusso di coloni sionisti in Palestina fosse ampio e rapido, perché corrispondeva ai propri interessi. E i leader del sionismo si affrettarono a considerare i maroniti non l’espressione più occidentale del mondo arabo ma il limite orientale della cristianità occidentale.
L’affinità non si è mai affievolita in tutti questi decenni. L’unico punto di attrito sono i profughi palestinesi della guerra del 1948. I libanesi maroniti, e non solo loro, desiderano rispedirli a casa. Israele non intende permetterlo.
di Michele Giorgio – Il Manifesto
da NENA NEWS
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BEIRUT. MouinRabbani: «Il rinnovamento non sarà cosmetico ne' radicale"
Parla l’analista arabo: “Hezbollah non è responsabile della crisi libanese più degli altri partiti, lo attaccano perché non è schierato con gli Usa. Tutti criticano il sistema politico settario ma alla fine non sarà abbattuto”
La rabbia popolare è incontenibile in Libano. Il governo vacilla e il premier Hassan Diab ieri sera ha chiamato ad elezioni anticipate. Dei riflessi dell’esplosione a Beirut nella politica libanese abbiamo parlato con Mouin Rabbani, tra i maggiori analisti politici arabi. «Le ricadute in politica interna sono inevitabili» dice Rabbani «i libanesi proseguiranno con più intensità le proteste contro una classe politica che considerano avida, incompetente e dannosa».
Questa classe politica si farà da parte?
Non è garantito che la catastrofica esplosione che ha devastato Beirut e ucciso più di 150 persone produca l’auspicata uscita di scena di personaggi politici, ai vertici talvolta da decenni, che hanno già dimostrato in passato una incredibile capacità di adattamento nelle situazioni di crisi. Un rinnovamento ci sarà e non sarà cosmetico ma, temo, neppure tanto radicale.
Hezbollah è preso di mira. Una parte dei libanesi accusa il movimento sciita, la forza più influente oggi nel panorama politico nazionale, di aver contribuito in modo determinante alla crisi economica e all’isolamento del paese da parte dell’Occidente a causa dei suoi stretti legami con l’Iran e della sua alleanza con la Siria di Bashar Assad.
Queste critiche sono giustificate solo in parte. Hezbollah ha delle responsabilità nella crisi economica libanese ma non più degli altri partiti. Il movimento sciita è entrato stabilmente nel quadro politico libanese non da molti anni e non può aver creato da solo problemi, politici ed economici, che hanno radici lontane. Se ci riferiamo al sistema confessionale, Hezbollah inizialmente ha provato a scardinarlo, anche perché la demografia è dalla sua parte. Un sistema democratico fondato su “un cittadino, un voto” può favorirlo. Ma non è riuscito nel suo tentativo. Ha scelto di unirsi al sistema settario e ora lo difende. E ciò è un problema per quei libanesi che pur non essendo suoi militanti non gli sono ostili e approvano almeno parte delle sue scelte regionali. Questi libanesi spesso sono giovani progressisti, della sinistra radicale, che chiedono un cambiamento vero per salvare il paese allo sbando e sentono di non avere più accanto questa forza che per anni si era proposta come rivoluzionaria, anti-sistema.
Però il sistema settario non lo ha imposto Hezbollah, lo dice la storia del Libano.
Per questo le accuse rivolte al movimento sciita sono giustificate solo in parte. In molti casi sono solo il frutto dell’agenda di forze che vorrebbero vedere una collocazione regionale e internazionale del Libano opposta rispetto a quella che vuole Hezbollah. La tensione tra i due schieramenti salirà con l’annuncio (il 18 agosto, ndr) della sentenza del processo all’Aja (al Tribunale speciale per il Libano) ai presunti responsabili dell’attentato in cui è rimasto ucciso nel 2005 il premier sunnita Rafiq Hariri. Sul banco degli imputati ci sono quattro membri di Hezbollah, non escludo scontri con conseguenze imprevedibili.
Ancora sul sistema settario, davvero gran parte del paese ne vuole la fine? La minoranza cristiana, solo per citare un punto critico, finirebbe per perdere buona parte degli ampi poteri che gli ha assicurato il colonialismo francese.
Lo vuole sinceramente soltanto una parte del paese. I libanesi più di tutto vogliono l’immediata uscita di scena dell’elite politica che da anni grazie al sistema settario si è creata posizioni di vantaggio, anche economico, facendo colare a picco il Libano. Quanto ai cristiani se da un lato il sistema li favorisce in termini di posizioni istituzionali e militari, dall’altro non riescono a ricavarne tutti i benefici. Da anni la minoranza cristiana è spaccata tra coloro che guardano all’alleanza con i musulmani sunniti e all’ex premier Saad Hariri e quelli (sostenitori del capo dello stato Michel Aoun, ndr) che sono convinti che la collaborazione con Hezbollah faccia gli interessi del paese e della loro comunità. Tra questi due schieramenti numerosi giovani cristiani guardano oltre l’appartenenza religiosa e desiderano la fine del sistema confessionale. Lo stesso vale per tanti giovani sunniti e sciiti. Il quadro libanese è molto complesso.
In questa complessità rientrano anche i libanesi che a metà settimana imploravano il presidente Macron a rendere di nuovo il Libano una colonia francese?
Quelle implorazioni, per quanto riprovevoli, non sono incomprensibili dopo un disastro del genere provocato da una amministrazione pubblica fallimentare sotto tutti i punti di vista. Quella gente che abbracciava Macron forse immagina che a Parigi tutto sia meravigliosamente bello e funzionante rispetto al loro paese in ginocchio e in povertà. Sono convinto che i libanesi, o gran parte di essi, siano consapevoli che la classe politica che vogliono cacciare è al potere grazie al sistema settario che ha creato la potenza coloniale francese. Proprio i libanesi che aprono le braccia all’Occidente dovrebbero considerare che gli Usa, parte dell’Europa e alcuni Stati arabi vicini a Washington sono stati fondamentali per consolidare lo status quo emerso dopo la guerra civile libanese (1975-1990, ndr) e che le politiche francesi e americane contribuiscono alla rovina del Libano.
di Michele Giorgio – Il Manifesto
da NENA NEWS